In difesa del consulente dal cliente

04/11/2017 · 453 parole · Leggi in 3 minuti

Io, a lavorare negli uffici del cliente, non ci sono mai voluto andare.

Andare a lavorare dal cliente mi è sempre sembrato un prestito: un noleggio umano a termine (forse è per quello che in certi casi vieni chiamato body rental). Ho sempre pensato: “se uno volesse andare a lavorare in un’azienda diversa lo starebbe già facendo”.

Dal cliente ci sono finito, comunque, più di una volta: all’inizio della mia carriere quando ancora studiavo all’università, “prestato” come informatico per tre mesi in Eni. Me la sono scampata, per fortuna, quando stavo in Mondadori. Più tardi qualcuno in prestito ce l’ho persino fatto finire io con l’azienda mia e dei miei soci. E poi, ironia della sorte, ci sono rifinito io, in prestito, per un progetto che desideravo seguire in prima persona.

Per certe cose della vita, ho imparato, non esiste valido sostituito per l’esperienza: l’ho capito — per esempio — quando sono improvvisamente diventato esperto di serrature dopo aver trovato con mia grande sorpresa la porta blindata di casa aperta, un bel giorno di primavera.

Allo stesso modo ho capito solo dopo alcuni anni il senso di lavorare dal cliente durante la mia ultima esperienza, in cui ho capito che per creare reale valore facendo il consulente non basta fare le solite cose: non basta rispondere alle e-mail, produrre documenti e mandare i follow-up. Devi principalmente capire a fondo il tuo cliente; e per farlo devi stare lì, dove il tuo cliente va ad occupare le stanze del suo ufficio per la maggior parte del giorno, muovendoti agilmente tra le sale riunioni e sostare abbastanza a lungo alla macchina del caffè.

Lì, dal cliente, dove certo si parla e ci si incazza e si fanno le presentazioni. Lì, dal cliente, dove però se ti fermi abbastanza a lungo oltre il dovuto, oltre ai rettangoli colorati del tuo Google Calendar, inizi a cogliere il significato precedentemente nascosto degli sguardi tra le persone, gli attriti e i giochi di tensione tra i colleghi, tra capi, tra capi e colleghi.

E allora capisci la difficoltà del cambiamento, la pressione per andare da questa o quella parte, la rincorsa della performance sempre migliore, quel tempo in più che pare non ci sia mai. Se un’azienda è un organismo complesso, allora per dare una mano “dall’esterno” un buon consulente deve scavare oltre agli aspetti superficiali, e per un po’ di tempo, diventare uno di quei colleghi.

Questo perché nella mia esperienza fino ad ora è solo in quell’extra tempo che si creano le relazioni migliori, quelle che permettono di prendere decisioni di lavoro consapevoli e lavorare meglio. Quelle relazioni, poi, che sotto sotto ogni consulente che si rispetti spera che non finiscano con l’ultima milestone dell’ultimo progetto insieme.